Enrico Miranda

di Pietro Scerrato – “Frintinu me..” Giugno 2010

Il personaggio di cui vi voglio parlare questa volta è Enrico Miranda, nato a Ferentino il 5 giugno del 1912 e scomparso a Roma il 29 giugno del 2008 al termine di una vita lunga ed intensamente vissuta in cui amore, passione, avventura, gioia e dolore si sono susseguiti e sovrapposti in un vortice continuo.
A raccontare tutte le vicende della vita di Enrico e ancor più incrociandole con quelle della sua consorte, Elena Curti, si potrebbe senz’altro scrivere la sceneggiatura di un film d’avventura. Elena è infatti anche lei un personaggio straordinario: bella, intelligente e molto determinata ha vissuto vicende storiche incredibili accanto a sua madre Angela Cucciati e ad un ben più famoso padre naturale. Su queste vicende ha scritto un libro autobiografico intitolato “Il chiodo a tre punte” che vi invito a leggere. Elena ed Enrico hanno vissuto insieme 50 anni intensissimi fra Italia, Spagna e Costa Azzurra: lei pittrice affermata che ha svolto la sua attività artistica a Barcellona, lui imprenditore di successo con molteplici interessi dalle navi ai mobili antichi sempre e ovunque in movimento. Prima di iniziare a parlare delle vicende di Enrico vorrei ringraziare la gentile signora Elena per la cortesia con cui mi ha ricevuto a casa sua e per le informazioni e la documentazione, tra cui il prezioso libretto di volo di Enrico, che mi ha fornito. Enrico Miranda, è stato tante cose: un capitano d’industria, un pilota pluridecorato, un istruttore di volo acrobatico, un atleta di salto con l’asta. Amante della vita, sapeva frequentare con la stessa disinvoltura i cosiddetti salotti bene e le osterie di paese; guascone e temerario, passionale e malinconico, sensibile e determinato, dotato di una grande capacità di comunicazione e di persuasione esercitava un grande fascino intorno a sé.
Parafrasando Alessandro Manzoni si potrebbe dire che si trovò più volte nella polvere e più volte sugli altari, alternando grandi ricchezze a momenti difficili: tutte vicende espressione del suo carattere, fatto di grandi passioni e slanci generosi frammisti al più umano desiderio di dare e ricevere affetto e comprensione, nella normalità e tranquillità della famiglia. In questo articolo mi limiterò a parlare di Enrico come eroico pilota di aerosiluranti, protagonista nel corso della seconda guerra mondiale di epiche battaglie aeree nei cieli del Mediterraneo. Come anticipato Enrico nacque a Ferentino proprio di fianco alla chiesa di San Ippolito. Il padre Michele, proveniente da una nobile famiglia napoletana di origine spagnola, fu trasferito a Ferentino per ricoprire l’incarico di medico provinciale e in seguito di primario dell’ospedale locale; in Ciociaria aveva trovato l’amore, sposando una giovane donna di Guarcino, Luisa Santurri. Enrico era il minore dei 5 figli della coppia e manifestò subito il suo carattere vivace e sensibile ad un tempo, dotato di una spiccata intelligenza, poco incline alle convenzioni, orgoglioso e un po’ ribelle era dotato di un fascino innato che faceva breccia su tutti. A 16 anni Enrico frequentava il liceo Cavour a Roma dove la famiglia si era trasferita. Verso la fine degli anni 20, nonostante la crisi economica globale, l’Italia era in grande fermento produttivo in tutti i settori: anche l’industria aeronautica era in pieno progresso tecnologico e i nostri piloti conseguirono una lunga serie di primati aerei; imprese eccezionali a cui avrebbero fatto seguito, di lì a poco, le incredibili trasvolate transoceaniche guidate da Italo Balbo. Era anche il periodo degli inquadramenti di massa e della retorica nazionalista. Enrico non era attratto da queste manifestazioni. I suoi interessi erano altri: studiava con profitto, ma qualcosa gli premeva molto di più. Aveva conosciuto, e se n’era innamorato, una ragazza bella, colta, profondamente educata e democratica: Gemma Malatesta, la figlia di Enrico Malatesta, il famoso teorico dell’anarchismo italiano. Con lei andava a visitare musei, assisteva alle prime teatrali e musicali, andava ad ascoltare i grandi oratori, anche cattolici, come Padre Semeria, celebre predicatore di quell’epoca. E così penetrò in un mondo fatto di cultura e di libertà che ebbe una profonda influenza nel suo modo di concepire la vita. Si era anche regalato un paio di anni in più per essere all’altezza della situazione. Venne arrestato e passò qualche giorno in guardina, sollecitamente aiutato dalla famiglia che prese la cosa con l’intelligenza che la distingueva. Il nostro Enrico era pedinato tutto il giorno da un poliziotto, piuttosto anziano e pesante, che incontrava non poche difficoltà a stare dietro ad un giovane così agile e scherzoso. Alla fine i due si misero d’accordo per incontrarsi alla fine della giornata e scrivere insieme la relazione dei suoi movimenti. Un giorno venne a far visita nel suo liceo Renato Ricci, all’epoca potentissimo ministro della gioventù fascista, ed egli stesso valente aviatore. Ricci fece un lungo discorso a quei giovani studenti che lo ascoltavano rapiti, esaltando l’amor patrio, l’ebbrezza del volo aereo e l’ardimento dei piloti italiani. Al termine chiese se c’era qualcuno fra loro a cui sarebbe piaciuto frequentare il corso per diventare un pilota. Per fare un paragone attinente sarebbe stato come prospettare ad un giovane dei nostri tempi la possibilità di diventare una stella del calcio o della tv. Ovviamente ci fu un’adesione entusiastica: tutti volevano cogliere la grande opportunità. Enrico fu l’unico a non alzare la mano e anche l’unico a non indossare la camicia nera: il preside lo fulminò con uno sguardo. Anche Ricci ovviamente se ne accorse ma, anziché riprenderlo, fu incuriosito dall’ardire di quel giovane che, in un’epoca di consensi generalizzati, aveva osato manifestare un apparente disinteresse. Quando poi Ricci passò in rassegna i ragazzi, arrivato ad Enrico gli diede una manata anche “troppo amichevole” sulla spalla (cosa che Enrico ripeteva sempre quando raccontava l’episodio) e quindi iniziò ad interrogarlo per capire i motivi della sua ritrosia. A giudicare dall’aspetto fisico il ragazzo aveva tutti i numeri per poter diventare un ottimo pilota o un ottimo atleta. Tale convinzione cresceva in Ricci man mano che proseguiva con le sue domande, alle quali il giovane opponeva, senza esitazione, pronte ed argute risposte, senza mai palesare esplicitamente il vero motivo del suo atteggiamento. Ricci, che anche per “mestiere” era un fine conoscitore dell’animo giovanile, concluse il suo colloquio invitandolo, con una certa “pressione”, a passare un mese di vacanza premio con altri giovani come lui. Enrico finì per integrarsi molto bene in quell’atmosfera di giovanile entusiasmo e ben presto si mise in luce primeggiando in varie discipline. Gli furono così assegnate alcune responsabilità tra cui quella di redattore del giornale del gruppo. Avendo una particolare disposizione per l’architettura gli fecero anche disegnare una fontana destinata al Foro Italico che fu presto realizzata e forse ancora esiste. In seguito ottenne la laurea alla Farnesina e infine, con l’appoggio sempre del ministro Ricci, che era diventato per lui un amico e protettore, entrò in Aeronautica. Il volo lo appassionava ogni giorno di più ed alla conclusione del corso ottenne il brevetto di pilota militare.
“Non avrò mai parole per descrivere la mia emozione e la mia felicità quando feci il primo volo in solitudine librandomi nel cielo e nello spazio: solo, libero, assolutamente libero! Il giorno più bello della mia vita”.
Così soleva dire quando ricordava questo episodio. Allo scoppio della seconda guerra mondiale lo troviamo giovane, ma già molto esperto, ufficiale della Regia Aeronautica, comandante della 252 squadriglia aerosiluranti. Tale squadriglia era inquadrata nel 104°Gruppo a capo del quale c’era il colonnello Asinari di Bernezzo, personaggio carismatico al quale Enrico era particolarmente affezionato. Gli aerei a disposizione erano i famosi Savoia Marchetti SM79. Tali aerei divennero tristemente noti agli inglesi per i danni che causarono alle loro navi e ai loro aerei. I piloti della Raf lo soprannominarono “gobbo maledetto” per via della caratteristica curvatura dorsale all’interno della quale era celata una mitragliatrice che proteggeva dagli attacchi la parte posteriore del veicolo. Il suo reparto, inizialmente di stanza a Pisa fece poi base in vari aeroporti del Mediterraneo, in funzione delle aree di guerra di volta in volta interessate: prima a Decimomannu, poi a Lecce ed infine a Gadurrà in Grecia, sempre impegnato nella cosiddetta guerra dei convogli, la durissima battaglia che vedeva contrapposte le forze aeronavali di entrambi gli schieramenti che si contendevano il controllo delle rotte del Mediterraneo. Tali rotte erano fondamentali per garantire il rifornimento delle truppe dislocate in Africa Settentrionale. Gli inglesi avevano costituito una base formidabile nell’isola di Malta ed era proprio questo il centro strategico da cui venivano coordinate tutte le azioni nel Mediterraneo e intorno a cui si scatenarono aspre battaglie. “Aerei italiani contro navi inglesi” titolavano i giornali dell’epoca, esaltando le gesta eroiche dei nostri piloti di aerosiluranti, I nomi di alcuni di loro, quali ad esempio Carlo Faggioni, Carlo Emanuele Buscaglia e Giulio Cesare Graziani divennero leggendari a seguito delle audacissime azioni di siluramento che effettuarono sui convogli nemici a sprezzo totale della propria vita. In questo contesto anche Enrico Miranda si distinse particolarmente per coraggio e determinazione, divenendo protagonista di decine di azioni aeree alla testa della sua squadriglia. Fu citato 4 volte nei bollettini di guerra trasmessi dalla radio nazionale appassionando tutti:
parenti, amici e concittadini. L’azione più significativa la compì il 14 giugno 1942 allorché, nel corso di quella che fu poi denominata la “battaglia di mezzo giugno”, attaccò insieme ad altri piloti una intera squadra navale inglese. I nostri aerosiluranti furono dapprima sottoposti ad uno spietato mitragliamento da parte dei caccia inglesi poi ad un intenso fuoco contraereo da parte delle navi. Enrico, intrepido, con l’aereo crivellato di colpi, volando a pelo d’acqua riuscì ad avvicinarsi al convoglio nemico e a sganciare il proprio siluro in direzione della nave più grande: la portaerei Malaya. Il siluro andò dritto verso il bersaglio ed esplose provocando un ampio squarcio nelle pareti della nave, la quale arrestò la propria corsa. La portaerei riportò gravissimi danni che costrinsero gli inglesi a ritirarla dal teatro delle operazioni per molti mesi.
Enrico Miranda
Per questa azione eroica Enrico Miranda ricevette la prima delle sue 3 medaglie d’argento, onorificenza gli fu conferita direttamente dal Duce nel corso di una famosa cerimonia svoltasi presso l’aeroporto di Decimomannu. Altre operazioni videro protagonista Enrico Miranda nel corso del conflitto, con una continua sfida al destino nell’impari lotta che vedeva i nostri piloti impegnati con grande coraggio ed insuperabile perizia contro forze nemiche soverchianti per numero di mezzi e per tecnologia. Numerosi altri affondamenti furono a lui attribuiti tra cui quello di 2 cacciatorpediniere e di un grosso piroscafo adibito al trasporto merci . Tali azioni gli valsero 3 medaglie d’argento, una croce di guerra oltre ad una croce di ferro fornitagli dall’alleato tedesco.
Motivazione prima medaglia d’argento:
Valoroso primo pilota di velivolo silurante partecipava alla luminosa vittoria dell’Ala d’Italia nei giorni 14-15 giugno in Mediterraneo, concorrendo, attraverso la violentissima reazione contraerea e dei caccia avversari, all’affondamento e danneggiamento di numerose unità nemiche.

Cielo del Mediterraneo, 14-15 giugno 1942.

Motivazione seconda medaglia d’argento:
Comandante di squadriglia, già distintosi in precedenti azioni di siluramento, partiva con carico eccezionale ed avverse condizioni atmosferiche per una lunga navigazione in mare aperto. Avvistato sulla costa nemica un convoglio, incurante dello sbarramento di palloni e della caccia, attaccava isolatamente, silurava ed affondava una delle unità di scorta. Inseguito ed attaccato da due velivoli nemici, riusciva a svincolarsi dall’impari lotta e, duramente colpito, con due soli motori e l’impianto di bordo completamente inutilizzato, percorreva ancora cinquecento chilometri di mare. Al limite dell’autonomia per perdita di carburante, in piena notte e con brillante manovra ammarava su di una costa amica portando in salvo l’equipaggio affidatogli. Esempio di perizia, ardimento e sereno sprezzo del pericolo.

Cielo del Mediterraneo Orientale, 22 ottobre 1942.

Motivazione terza medaglia d’argento:
Comandante di squadriglia già distintosi in tre azioni di siluramento, partecipava ad un intenso ciclo di ricognizioni offensive diurne e notturne portando sempre brillantemente a termine ogni missione di guerra. In una ricognizione offensiva notturna, intercettato dalla caccia e perduto il contatto con il sezionario, proseguiva isolato la missione portandosi fin nei pressi di una munitissima base nemica. Avvistato un convoglio scortato da navi da guerra, sfidando risolutamente la reazione avversaria attaccava e colpiva con il siluro un piroscafo di 8.000 tonnellate, riportando così la sua quarta vittoria. Esempio di coraggio, perizia ed elette
virtù militari.

Cielo del Mediterraneo Centrale, 12 dicembre 1941 – 25 aprile 1943.

Uno dei ricordi più cari che aveva Enrico della sua guerra era il seguente. Era il pomeriggio del 22 ottobre 1942: la squadriglia di Enrico, decollata dall’aeroporto greco di Gadurrà si diresse sul Mediterraneo Orientale per intercettare un convoglio inglese a largo di Porto Said. Alle ore 18.00 circa scorsero le navi nemiche. In un attimo gli aerosiluranti furono addosso al bersaglio. Enrico fu il primo a portarsi sull’obiettivo. Arrivato a pelo d’acqua sganciò il proprio siluro verso un cacciatorpediniere inglese che fu centrato in pieno ed affondato. Nel frattempo erano giunti sul teatro di guerra una dozzina di caccia nemici che immediatamente attaccarono i nostri aerei. Tre caccia si diressero verso l’SM79 di Enrico sparando raffiche micidiali di mitragliatrici. Enrico dovette fare ricorso a tutto il suo sangue freddo ed abilità di pilotaggio per riuscire a far fronte a questa situazione disperata. Iniziò quindi a compiere
una serie di manovre acrobatiche per cercare di divincolarsi dalla morsa micidiale: la lotta era infatti impari essendo i velivoli nemici molto più agili e veloci. Dopo un quarto d’ora di disperate evoluzioni, con il motore centrale fuori uso e un serbatoio perforato, Enrico riuscì a trovare un varco ed uscire dall’accerchiamento. Si diresse allora con tutta la velocità consentita dai 2 motori ancora funzionanti verso il mare aperto sempre inseguito dai caccia nemici. Dopo alcuni minuti di corsa disperata, con le pallottole che fischiavano da tutte le parti, avvenne un primo “miracolo”: gli aerei nemici probabilmente a corto di carburante fecero improvvisamente marcia indietro. Passato il pericolo imminente si trattava ora di portare a casa la pelle e la furia del combattimento oltre a limitare di molto la capacità operativa dell’apparecchio lo aveva portato lontano dalle nostre coste. Enrico fece l’unica cosa possibile: provare comunque a raggiungere le coste greche su cui erano dislocate le nostre truppe. Percorse ancora 500 miglia fino a quando, esaurito il carburante, fu costretto all’ammaraggio, riuscendo però, prima di scendere in acqua, a comunicare via radio le proprie coordinate. Erano in prossimità dell’isola di Kupho (Creta), occupata dalle nostre truppe, anche se non per questo potevano dirsi salvi L’aereo cadde in acqua e riemerse quasi subito. Il comandante Enrico Miranda diede l’ordine di effettuare immediatamente l’abbandono del velivolo perché sarebbero passati solo 20 minuti circa per l’affondamento definitivo. Nell’operazione di trasbordo persero il canotto di salvataggio e la mitragliatrice. Era buio ormai. I quattro uomini dell’equipaggio dopo essersi calati in acqua si diedero la mano l’uno con l’altro formando un cerchio; in questo modo cercavano di non disperdersi e di tenersi a galla reciprocamente: sotto di loro c’erano 2000 metri di precipizio, l’acqua era fredda, il mare agitato, un vento gelido li sferzava senza pietà e in fondo al loro essere spuntava una segreta paura dei pescecani che infestavano notoriamente quelle acque. Pensavano veramente che fosse giunta la loro ultima ora. La situazione era disperata: le speranze di salvezza erano legate alla possibilità che qualche unità di soccorso potesse trovarli nel buio della notte e, ovviamente, alla loro capacità di resistenza.
Gli uomini iniziarono allora a pregare ad alta voce. Poi si acquietarono concentrati nei loro pensieri più intimi: pensavano alla morte imminente e agli affetti che lasciavano. Quando cominciò ad albeggiare scorsero, non lontano, qualcosa che galleggiava: si avvicinarono e videro che si trattava di un aviatore inglese, svenuto, con la testa fuori dall’acqua appoggiata a una specie di cuscino, tipico dei salvavita inglesi. Era un nemico, ma prima ancora era un uomo accomunato al loro stesso tragico destino. Fu così che protesero le braccia verso di lui, lo trascinarono nel loro gruppo e lo risvegliarono. Ora erano cinque gli uomini in cerchio appesi sulle profondità del mare. L’ inglese era molto giovane e cominciò a conversare con i nostri. Enrico, fungeva da traduttore. L’aviatore raccontò che era sposato e che era diventato da poco papà senza aver ancora potuto vedere il suo bambino e non voleva morire prima di averlo tenuto almeno una volta in braccio. I nostri si commossero e ognuno di loro volse il pensiero ai propri affetti più cari cominciando a raccontare le proprie storie di vita. Il tempo iniziò a trascorrere più in fretta, l’acqua era divenuta improvvisamente più calda e tranquilla come i loro cuori e anche il vento aveva trovato un po’ di pace come le loro anime: sembravano cinque vecchi amici dinanzi ad un caminetto. Dopo aver passato un’altra notte in mare avvenne allora il secondo “miracolo”: un’ imbarcazione li scorse e li portò in salvo. Si trattava di un carico della marina italiana che, sotto spoglie di peschereccio, effettuava perlustrazioni in mare in cerca di superstiti e di informazioni per i servizi segreti. Il caicco era comandato dall’allora Cap. Pilosio il quale, nel complimentarsi con l’equipaggio, domando: “Salvi tutti e quattro?“. Infatti in quel periodo l’equipaggio di un aereo di combattimento non poteva essere formato per regolamento da più di quattro persone. Quando il comandante Miranda rispose che erano in 5 i sopravvissuti, aggiungendo che avevano avuto a bordo un “clandestino”, Pilosio finse di crederci. Fu così’ che il giovane inglese rimase un certo tempo con gli italiani ricevendo l’assistenza medica del caso; in seguito, purtroppo, dovette essere consegnato ai tedeschi come prigioniero di guerra. A questo punto l’equipaggio italiano e l’aviatore inglese si separarono e non si videro mai più. Al termine della guerra Enrico si mise alla ricerca del giovane, pubblicando delle inserzioni a pagamento sui giornali inglesi e raccontando tutta la storia. Alcuni giornalisti d’oltremanica lo intervistarono portando così ulteriormente all’attenzione dei media inglesi quel gentiluomo italiano, determinato nell’azione ma nobile nei sentimenti. La vicenda suscitò commozione e viva partecipazione nell’opinione pubblica. Purtroppo però tutti i tentativi di ricerca furono vani. Negli anni a seguire Enrico continuò sempre a pensare a quel ragazzo, sperando che avesse potuto coronare il sogno di abbracciare il figlioletto e la giovane moglie. Alla fine della guerra il Comandante Miranda si congedò dal servizio attivo nell’aeronautica militare progredendo la sua carriera nella riserva sino a conseguire il grado di Colonnello. Iniziò quindi un’altra serie di avvenimenti: entrò in una fase attiva di affari internazionalmente concepiti con la solita grandezza di vedute. Invaghitosi di una nobildonna francese si trasferì a Parigi.
Alcuni anni dopo incontrò Elena, della quale si innamorò perdutamente: si sposarono e andarono a vivere a Barcellona. Qui vissero per molti anni creando, fra l’altro, una fabbrica di riproduzione di mobili antichi e conseguendo un successo internazionale di vendita nel settore. Giunti alla soglia della vecchiaia la nostalgia della madre patria prese il sopravvento. I coniugi decisero di tornare in Italia e si ritirarono a vivere in provincia di Viterbo, ove il fratello maggiore di Enrico ricopriva l’incarico di Provveditore agli Studi.
Enrico godette di buona salute sino alla soglia dei 90 anni: poi fu colpito da una dura malattia, caratteristica dell’età avanzata e, sempre accudito amorevolmente da Elena, concluse i propri giorni all’età di 96 anni. Per sua volontà il suo corpo fu cremato e le ceneri disperse in quello stesso mare che lo aveva visto protagonista di tante imprese.